quale fu
lo scopo
nel macchiare la pelle
con simboli magici
e pagani

a cose servì
la Spina del Sonno
se volli essere vigile
se volli essere desto

mi entrasti dentro
sottile come ago
e spargesti i tuoi liquidi
in tutti i miei capillari
tra le fibre dei muscoli
nelle cellule dei tessuti
fino a calarti più in basso
alla base del ventre

e da lì
inseminato
germogliato
e risalito
lungo le pareti
dei miei organi
interni

filamenti organici
rami fioriferi
e come cascata
giù dalla mia bocca
spalancata
e fuori
da ogni mio
orifizio

e ti avvolsi
poi ti legai
poi ti tirai
verso di me
verso il mio centro

nacque dal tuo seme
questo legame
che mi tendeva
che mi tirava
che mi aggrovigliava
in questo giardino
che fu poi
il nostro Mondo

e da lì ogni strada
ogni spiaggia
ogni muro
si intrise
e si sporcò
di noi
e lo sono tutt'ora

ma tu eri Hedera
ed io un tempo
ero un fiore notturno
mi schiudevo al buio
e raccoglievo
l'umidità
per poi richiudermi
verso il mattino

ma poi accadde
che crebbi
divenni grande
divenni albero
e il mio stelo
si fece corteccia
e crebbi alto
tendendo i miei rami
le mie mani ossute
verso la Luna
scontornato dal blu
e sembravo gridare
in silenzio
da tanto la mia forma
era contorta
e nodosa

le mie radici
le affondavo nel fango
ma bene in fondo
e lì trovai
la mia pace
come arbusto palustre
sommerso dalle piene
e arso dalle siccità
e in questa stasi
stupenda e sublime
vissi ogni stagione
osservando immobile

ma poi
in un giorno freddo
nella notte più lunga
ti arrampicasti
su quella corteccia
che tanto avevo irrigidito
dal di dentro
fino a fuori
tramutando la linfa
in legno duro
irregolare e ispessito
dalle stagioni

dicevamo:
che risalisti
lungo il mio tronco
fino alla chioma
e ricoprendomi
con le tue foglie
tanto da ripararmi
dal Sole
da quella luce violenta
che ti costringe a vedere
la troppa chiarezza

ma mi privasti
del pallore
della Luna
di quella luce ambigua
che proietta le ombre
oltre il Reale
e costringe
ad indovinare
e ad abbandonarti
alla suggestione
alle visioni

e con quelle piccole radici
lungo i tuoi steli
ti insinuasti
nelle mie crepe
e aderisti
agganciandoti
e da lì aspirasti
al risalire

ma poi
come eri salito
ti ritirasti
e ti espandesti
sopra la melma
fino a raggiungere
altre piante

e non ero più albero
ero foresta
ero una parte
un frammento
della moltitudine
ero individuo
in mezzo ad altri
unico
eppure parte
di altro.

Ma le metafore
silvane ed oscure
a poco servono
per rendere la cifra
quantificare i danni
di un'anima sbriciolata

a poco serve
farsi belva
graffiare muri di marmo
lasciare traccia
di sofferenza

marmo o gomma?
di cosa eri?
io non lo so

"E nell'indecenza
di questa sentenza"
mi ricopro di colpe
di domande
le cui risposte
sono fin troppe

però
io c'ero
mi sembrava 
di esserci
e mi sembrava
ci fossi anche tu

eppure però
però
basta

però
"in un dato momento"
"a un certo punto"
come si dice
non c'eri più

eri qui
eri lì
e poi sei stato là
sei stato laggiù
e poi sei stato
dove?

ti sei negato
transustanziato 
divenuto etere
e come gli dei
ti sei fatto statua
come il Cristo
ti sei fatto icona

sei ora fatto
della consistenza dei sogni
e ti sei vestito
di catarifrangenze
ed evapori
sui tuoi stessi passi
e la tua essenza
lascia un involucro
un esoscheletro
duro ma fragile
come insetto svuotato

e da lì
sei diventato vapore
che nemmeno i pugni
nemmeno le parole
ti scalfivano più.

Iniziava l'Estate
quando scorsi
tra i vestiti invernali
la vecchia armatura
e non ho più potuto
non vederla

e mentre la lucido
e affilo la spada
mi vesto di acciaio
e mi preparo
per affondare
il colpo letale
il colpo legale
della Giustizia
che con la spada
divide il torto
dall'onestà

bianco e nero
bene e male
giusto e sbagliato
vero e falso:
la mia spada
separa
discerne e divide

una psicostasia premortale
un ago che si sposta
e protende
verso la dannazione

e io mi appello
a tutti i monoteismi
e agli dei pagani
e costruisco altari
tribunali ed inquisizioni
traghettatori e demoni
mi appello
a tutti i Giudizi
e a tutte le espiazioni

ma nel mio giudizio
che è dettato
dalle mie stelle
io sono con te
trascinato laggiù
nel regno dei morti.

E l'inconsistenza
del tuo corpo
di come un tempo
ti permettesti
di prendere liquidi e gemiti
saliva e sudore
sperma e sangue
odori e pelle
e tramutarli in pixel
flussi di dati
incanalati
spediti
inviati
via cavi subacquei
o satelliti orbitanti

e così facendo
hai scomposto
volatilizzato
la consistenza
dell'amore
la materia
degli amplessi

rendendoti immagine
ti sei fatto merce
autosnobilitato
autocestinato
ad uso e consumo
e da questa sintesi
sei riemerso
ripulito e lucidato

e profetizzando Amore
mi schiacciasti
e non fu più
quel piacere
quella specie di gioco
nel quale soffocavo
sotto il peso
dei tuoi piedi

no
questa volta
faceva male
questa volta
non respiravo
più
poco conta
da dove arrivi
la vera origine
dell’amore
che riempie la stanza
o meglio
che esce dal petto
e che rimbalza 
sui muri
e mi ritorna
senza mai cedere 
di intensità 

importa
poco
non importa
quasi niente
da quale sintesi
da quale causa-effetto
sia stato generato

io ho imparato
che di notte
mi circonda
e mi stringo compatto
e basta 
anzi a volte
soverchia
ma non più 
da fare male

io ne ho capito
l’origine
i meccanismi misteriosi
la chimica
ed ora tutto
fa meno paura
fa meno terrore

ho conservato 
la chimica dei liquidi
scartando i corpi

e in questo periodo
poco conta
se sei tu
che stai causando
questo mio effluvio

io prenderò da te 
ciò che in fondo
è già anche mio:
tutto questo amore
questa voglia
del tuo corpo 
che già vedo
dei tuoi silenzi
che nascono 
dalla semplicità 
della tua mente
piuttosto che dal buio

e di notte
mi basta questo
la stanza piena
di te o di me
è indifferente
ciò che invece
davvero conta
è il resistere
il non cedere
al non essere solo

e mi schiudo
nella solitudine
e ignoro
il tuo sguardo
che di nascosto
mi spia
e quando si incontrano
gli occhi sfuggono 
e va bene così
sarà sempre così

la solitudine
è nella genetica
e non c’è educazione
non c’è allenamento
che la temperi
o la condizioni

mi sono tradito
innumerevoli volte
sottovalutando
la mia autonomia

ma ora
ho rivoltato tutto
brillando da dentro
fino a fuori
ma più niente
si deposita
sopra i miei pori
e niente più 
entra dentro
o almeno
niente che porti un nome
ne il tuo 
ne nessun altro

ho tolto il superfluo
che la pelle marcisce
e gli occhi
lasciano lo spazio
a buchi neri
di un cranio
che in fondo
è uguale a tanti altri

perciò siediti vicino a me
avvicina pure le tue mani
giochiamo a questo
ma tu lo sai
che di la
ho una stanza piena
di quello che potresti darmi
e le tue carni
non alimentano più
tutto l’amore
che so produrre
sintetico
riproducibile
sospendibile

ártíð

materializzato e apparso
nella Città Eterna
e come le rovine 
di un’epoca decaduta
hai fatto delle tue macerie
un museo a cielo aperto
della tua decadenza
ne hai fatto attrazione 
un parco a tema 
di demoni e morti
di carcasse 
disposte e ordinate
in una posa macabra
calcolata e posticcia

scheletri
di un tempo morto
capitelli e vestigia
disordinati con cura
a creare
una bellezza
tanto tragica 
quanto artefatta

la tua sorte comune
a quella di un impero
venduto e prostituito
al teatro
di un martire appeso
e la tua vedovanza
piange lacrime dipinte 
da pigmenti sintetizzati
sangue sintetico
a segnare il corpo
di un cristo
che tu stesso 
hai ucciso e crocifisso
a giustificare
la dissolutezza di un’epoca
arresa e caduta
ad un culto vampiresco 
plastico e svuotato
di vero dolore

e in questo commiato 
che ti riservo 
dopo mesi di silenzio
dopo un anno esatto
un anniversario 
che celebra
il niente di fatto
in quel giorno
sono sfrecciato
a pochi centimetri
e senza indugi
ti ho lasciato
più indietro 

è solo una storiografia
a ritroso
un ritratto
di mimato dolore
da indifferente biografo
elucubrazioni 
di una mente
che ha troppi passi
per pensare
troppa noia
per guardare il futuro
perciò ritorno
sulla mia negligenza
di mesi passati
che ormai sono secoli 
sono millenni

ma io devo sapere
cosa respingo
cosa rigetto
perché altrimenti 
perdo parti di me
che io
a differenza degli altri
non sono mai
disposto a perdere 

perché è il sapere 
di me
delle mie fibre
di tutti i miei tendini
ed è dentro di me
che sono rivolto
nel sangue
nelle viscere
nelle pastiglie
nei liquidi

e di penetrarmi
e conoscermi
non finirò mai
di studiare le immagini
per vedermi dentro
e riappropriarmi di me
della mia coscienza 
della mia musica 

 per chi legge

e per chi scrive

è giunto il tempo

di definire

l'oscillare

dall'equilibrio

alla follia

in una ricerca

che mai si compie

 

influenzato dal segno

metallico e simmetrico

governato da venere

il tuo giorno

supera il tuo anno

 

impattato da un corpo

troppo piccolo

per annientarti

eppure

abbastanza grande

per rivoluzionarti


da quello schiaffo celeste

hai coperto il volto

e hai avviato

il tuo moto contrario

e da quel momento

hai seminato morte

 

profondendo lava

sul terreno fertile

asciugando

i tuoi mari

ti seinascosto

da nubi sgargianti

 

in un esercizio

di brutale bellezza

hai fatto dell’ira

il tuo fascino

coperto il volto

di luce dorata


e in questo stare

le ere degli impatti 

sono ormai remote

sei una sfera sospesa

che orbita sola

senza satelliti

senza più vita


e tutto ciò che ti esce

straripando dal dentro

ti rimane addosso

sopra la pelle

un’atmosfera 

la cui chimica

rimane a te per primo

ancora sconosciuta 

Mjölnir

lo senti quell’osso
scivolare nella giuntura 
e incastrarsi giusto
e allora sei stabile
in sicurezza

una parete 
di piccoli muscoli
lungo la schiena
che ormai
controlli 
li senti tutti 

le vene si gonfiano
e pensi al respiro
al dolore
sul quale sai
che ti stai buttando 

scienza di incastri
perfezione motoria
geometria di corpi

giusto o sbagliato
sono le sole
ed uniche 
modalità

è questo rigore
la tua disciplina
che stai perseguendo
ma in fondo sai
che sempre
l’hai avuta

ma quante volte
hai preteso 
di trasferirla
su altri corpi
su altri occhi

e allora i giorni
hanno ingoiato
altri giorni
e poi i mesi
inghiottiti
dagli anni

fino a sembrare vero
fino a credere
nell’altro da se
seppure per poco

e adesso lo sai
mentre ti reggi
mentre ti tieni
che hai solo le tue
di braccia e mani

e in quel tempo
quanto hai chiesto
dai loro occhi
dai corpi e dalle teste

eppure sapevi
del poco 
che potevi pretendere
e che hai 
di fatto 
poi ottenuto

ma poi è successo
o meglio
sta succedendo
che ti svincoli
dalla gravità
e ti rannicchi più in alto
e lì
puoi chiudere gli occhi
e rimanerti dentro
sentirti abitare
dentro l’involucro
di ossa e carne

e fuori
non ci sono più
i compromessi
le aspettative
le abitudini
e le troppe parole
ii troppi eventi 
che in fondo
non ti interessano

ed ora sei lì
stavolta davvero
chiuso e ritratto
indurito e rotondo
e hai smesso
di chiedere tutto

hai smesso
di parlare
di sederti e brindare
di ascoltare
le esistenze mediocri
che infinite
sarebbero pronte
a sfilarti davanti 
ma tu 
hai deciso

la spalla è bloccata
la gamba è tesa 
i tendini attivi
e solo tu
li comandi

Fenrir

c’erano
le mie cellule
strette e compatte
gia oppresse
sotto il peso
della mia stessa
gravità

ma sempre
c’è stata
la coscienza
del dolore
che ne deriva
il tormento di esistere
la rabbia di vivere

ma è quando una mano
straniera e pesante
spinge la pelle
la testa e le spalle
sotto il fango
che allora
ci si desta

e finalmente si lotta
ci si ribella
e allora si vuole vivere
un po’ per dispetto
un po’ perché l’astio
in qualche modo
sazia sempre
per un po’

e a niente conta
fingersi bestia
perché la natura
tradisce la posa
annulla la lotta
e allora rimani
come sei nato
destinato
ad essere preda

che non hai 
così tanti artigli
e zanne affilate
e la tua fuga
è sempre affannata
no
tu non sai
vivere fuori

perché troppi occhi
troppe unghie
sono più scaltre
e lo scatto
ti ha già preso
e accasciato giù

dominato
e pestato
trascinato
fino alla tana
smembrato
ancora vivo

e tu 
hai solo i colori
del tuo veleno
e non ti confondi
con la natura
e allora sei lì
osservato ed ignaro

ed eccolo il balzo 
repentino e fatale
e tu lo sapevi
era nella chimica 
nella tua genetica 
vorrei poter dormire
e sapere
che stavolta
mi lasci

vorrei poter andare
in un angolo
della memoria
e lì stare
dimenticato e dimentico
poco ingombrante 
e piccolo
appiattito
ad una parete

e invece dormo
che ancora mi tieni
e mi tiri
sopra il cuscino 
con la testa 
fatta pesante
e non posso scivolare
giù in fondo
nell’oblio 

spasmi e affanni
mi destano
visioni e sogni
mi abitano
voci dentro 
rimproveri
per qualcosa 
di mai fatto

e io giro e rigiro
fino a stordirmi
fino a sentire
il cervello tremare
e lì non ci sei
e lì non ci sono

ci sono 
solo le mani
prese ben salde
per afferrare 
e tenersi su 
e la mente
non ha spazio
per vezzi d’amore

per non cadere
ma per davvero
per non morire
ma per davvero